Società “malate”? ‘Contro la paura’ di Pino Arlacchi (2022)

“Tutte le societa’ sono malate, ma alcune sono piu’ malate delle altre” – Robert Edgerton

di Federico Soldani – 18 Gennaio 2022

Esistono societa’ che si possano definire ‘malate’? C’e’ il rischio o l’opportunita’ – a seconda dei punti di vista – che questa metafora della societa’ malata venga sempre piu’ considerata reale ovvero che venga letta in senso tecnico come una necessita’ di cure mediche e psicologiche anziche’ sociali, economiche, fiscali e in ultima istanza politiche, ovvero democratiche? Quanto c’e’ di elitario e di non democratico in una societa’ spoliticizzata e in cui i problemi prima e le soluzioni poi sono presentati sempre piu’ come tecnico-scientifici, ovvero non solo sociologici ma addirittura medici, psicologici, epidemiologici?

In una intervista nel 2020 sostenevo come “Nel periodo tra le due guerre il movimento tecnocratico diventa molto importante anche negli Stati Uniti e quindi è un movimento in un certo senso anti-politico perché – ai tempi c’erano anche medici, c’erano proprio psichiatri – che si proponevano di curare la società. Ma non in senso metaforico oppure stando al loro ruolo, a un ruolo clinico, oppure come epidemiologi, ora c’è il virus ci occupiamo dell’epidemia, ma non allarghiamo il discorso a come dovrebbe essere governata la società. Mentre questi tecnocrati sostenevano che la politica ormai era inadeguata e si dovessero invece, perché c’erano i mezzi tecnici per farlo, affrontare i problemi sociali, i problemi in senso lato politici, utilizzando proprio le tecniche mediche.

E posso farvi un esempio, questo è un libro del 1948 che si chiama ‘Medicina Psicosociale, Uno Studio della Società Malata’ di Halliday, medico e dottore in sanita’ pubblica – all’interno ringrazia persone che lo hanno aiutato in questa elaborazione, uomini Rockefeller o del Tavistock Institute of Human Relations di Londra – e praticamente sostiene che la società sia effettivamente malata e vada trattata così. Lui era proprio un esperto di psicologia e di medicina preventiva.

E lui per esempio come allargava il discorso? Perché ‘la società è malata’ è una metafora. Tanto è vero che anche in psichiatria c’era un famoso psichiatra, Thomas Szasz, che quando doveva dire che la malattia mentale a suo avviso non era una malattia organica come le altre ma una malattia metaforica, usava una metafora dicendo, quando c’è una cattiva politica fiscale noi intendiamo che la società è malata. Ma in senso metaforico.  

Ecco, invece questi signori cosa dicono? Questo signore in particolare Halliday dice: siccome la psicodinamica individuale può essere disfunzionale – e questo discorso si lega poi anche in senso più ampio al discorso dell’automazione – questa disfunzionalità psicodinamica può essere allargata ai gruppi e alla società e può addirittura somatizzarsi, quindi parlava della medicina psicosomatica.” Ecco come si crea un discorso nel quale si passa dal senso metaforico a quello letterale.

“Uno dei modi in cui oggi l’anti-politica a mio avviso si afferma” – concludevo – “e’ in questo proliferare incredibile, si pensi soltanto, io appunto ne ho parlato l’anno scorso, ma quest’anno il decreto Cura Italia.  Quindi, piano piano il linguaggio politico usa sempre più metafore mediche, psicologiche, epidemiologiche e queste metafore, proprio come faceva Halliday e altri, piano piano vengono sempre più presentate non come metafore, non come modi di dire, non come figure retoriche o come delle analogie, ma come letteralmente delle questioni di cui si debbono occupare i tecnici.”

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A partire da queste riflessioni vorrei fare alcune considerazioni sull’ultimo libro del professor Arlacchi.

Giuseppe ‘Pino’ Arlacchi, originario della Calabria, e’ un sociologo che ha avuto trascorsi importanti in politica tra cui spicca il suo ruolo di Vicesegretario Generale delle Nazioni Unite (ONU). Come recita il risvolto di copertina “e’ una delle massime autorita’ mondiali in tema di sicurezza umana, ed e’ noto per i suoi libri, tradotti in molte lingue, e per la sua attivita’ pubblica contro i poteri criminali. Professore ordinario di Sociologia, ex vicesegretario generale e direttore esecutivo del programma antidroga e anticrimine dell’Onu, e’ stato collaboratore e amico dei giudici Chinnici, Falcone e Borsellino. Deputato e senatore, parlamentare europeo, e’ stato tra i maggiori architetti della strategia antimafia italiana negli anni Ottanta e Novanta dello scorso secolo. Ha redatto il progetto esecutivo della Dia, la Direzione investigativa antimafia, e ha fatto parte del comitato internazionale di tre esperti costituito dalla Repubblica popolare cinese per la sicurezza dei Giochi olimpici del 2008. Il maggior risultato ottenuto da Arlacchi durante il suo mandato alle Nazioni unite e’ stato l’approvazione da parte dei paesi membri del Trattato mondiale contro la criminalita’ organizzata transnazionale, il sogno di Giovanni Falcone. E’ presidente del Forum internazionale di criminologia e diritto penale, un’associazione di studiosi d’eccellenza provenienti da 50 paesi, con sede a Pechino.”

Nel 1994 il capo di Cosa nostra, Riina, si riferi’ a lui in modo minaccioso parlando di “questo Arlacchi che scrive libri”.

Il suo libro pubblicato appena un anno fa e’ ‘Contro la Paura. La violenza diminuisce. I veri pericoli che minacciano la pace mondiale’ (Chiarelettere, 2020). Il libro e’ dedicato al Santo Padre, Francesco.

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Il volume contiene alcune riflessioni che potremmo definire di ordine a vario titolo psico-politico, poiche’ si cerca di tracciare un nesso tra la natura umana e le caratteristiche di culture e societa’ da una parte ed esiti anche politici dall’altra. Temi di questa natura trattati da Arlacchi sono la cosiddetta epidemia di oppioidi negli Stati Uniti, in un certo modo il ‘Putin-bashing’ rispetto alla Russia (il giornalista Giulietto Chiesa, che non risparmiava linguaggio psicologico e psichiatrico in ambito politico, intitolo’ un suo libro ‘Putinfobia’), il mercato mondiale delle droghe, le societa’ presentate come malate. uomini come scimmie assassine o meno (secondo Arlacchi non lo saremmo piu’), e l’insanita’ mentale dei soldati che si rifiutano di uccidere in situazioni di guerra.

Si puo’ notare, essendo Arlacchi un sociologo che ha prestato attenzione ai campi della criminologia e del diritto penale, come uno dei piu’ importanti sociologi del secolo scorso avesse interessi simili: Pitirim Sorokin fu il fondatore dei dipartimenti di sociologia sia all’universita’ di Pietrogrado (San Pietroburgo, poi Leningrado) sia all’universita’ di Harvard a Cambridge/Boston negli Stati Uniti. Seguendo le tracce di uno dei suoi maestri, tra i fondatori della psichiatria Russa prima e Sovietica poi, ovvero Vladimir Bechterev, scrisse proprio di ‘Societa’, Cultura e Personalita”. Sorokin scriveva come “le categorie dell’individuale, del sociale e del culturale siano tre aspetti inseparabili dello stesso fenomeno superorganico”.

Dei temi sopra mi concentrero’ su un tema che Arlacchi tratta e di cui mi sono occupato in precedenza, senza che questo sia centrale nel libro, e che a mio modo di vedere e’ espressione di un tipo di visione che illumina probabilmente almeno in parte il resto della trattazione, ovvero quello delle societa’ cosiddette “malate”. Espressione che Arlacchi mette opportunamente tra virgolette. Provero’ anche ad accennare al discorso degli uomini quali scimmie assassine o meno, a cui e’ dedicato un capitolo del libro.

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‘Società malate: sfidare il mito dell’armonia primitiva’ New York: Free Press, 1992

Nel capitolo su ‘Il meglio e il peggio della natura umana’, Arlacchi scrive (enfasi e link aggiunti anche nelle citazioni successive): “Siamo qui nel grande tema delle societa’ “malate”, e di quello delle comunita’ incapaci di controllare il proprio rapporto con la natura, e che si sono percio’ estinte. Un temerario antropologo, Robert Edgerton, ha sfidato frontalmente una delle teorie dominanti della scienza sociale, il funzionalismo, affermando che non e’ per nulla scontato che ogni cultura sia in accordo con la societa’ che la esprime, perche’ ci sono parecchi casi di patologie e di conflitti anche acuti. Ci sono culture “malate”, che danneggiano le comunita’ di riferimento, provocano conflitti interni e violenze aberranti, e portano prima o poi alla rovina”.

Il libro di Edgerton – ‘Società malate: sfidare il mito dell’armonia primitiva’ New York: Free Press, 1992 – si apriva con una frase che si ispirava a quella della ‘Fattoria degli Animali’ di Orwell: “Tutte le societa’ sono malate, ma alcune sono piu’ malate delle altre.” Edgerton quindi non metteva l’aggettivo medico tra virgolette ma anzi, lo poneva subito come centrale al punto di dichiarare come tutte le societa’ siano in qualche misura malate. C’e’ davvero bisogno, mi chiedo, di rifarsi alle categorie piu’ o meno mediche per parlare di qualcosa che non va in una societa’ o in una cultura? Questa tendenza e’ presente almeno da Platone in avanti e si puo’ anche ricordare come Karl Popper ritenesse che Platone fosse un proto-totalitario a suo modo di vedere. Il legame tra una visione organicista, che da metaforica si fa letterale, e le filosofie politiche totalitarie e’ dunque possibile. Una volta che un individuo non sia piu’ primariamente tale, per quanto legato agli altri nella polis, ma sia primariamente visto alla stregua di una cellula della societa’, dalle categorie del politico si passa a quelle mediche, anche psichiatriche, e chirurgiche. Con conseguenze su cui riflettere. Certo che anche la dottrina sociale della Chiesa Cattolica parla di “corpo sociale”, ad ogni modo l’enfasi sull’aspetto sociale puo’ forse contribuire a bilanciare la metafora organicistica.

In epoca moderna e’ stato Thomas Hobbes ad esprimere in ambito filosofico-politico una teoria organicista dello stato evidente sin dalla celebre immagine del ‘Leviatano’ (1651), come grande corpo composto dai cittadini (nella prima foto in alto). In basso sotto il Leviatano, una citta’ deserta in cui si aggirano i dottori della peste, che indossano le loro caratteristiche maschere dal becco simile ad un uccello.

Questa osservazione sulla presenza dei medici della peste sul frontespizio del ‘Leviatano’ di Hobbes, come riporta il giurista e filosofo Agamben nel suo seminario ‘Stasis’ (in ‘Homo Sacer’ 2018), era stata effettuata prima “da Bredekamp [2003], che non ne aveva tratto alcuna conseguenza; Francesca Falk sottolinea invece a ragione il significato politico (o biopolitico) che i medici acquistavano durante un’epidemia: la loro presenza nell’emblema ricorda “la selezione e l’esclusione e la prossimita’ nell’immagine fra epidemia, sanita’ e sovranita'” [2011].

Particolare dal Frontespizio del “Leviatano” (1651), incisione di Abraham Bosse

Incisione su rame del dottor Schnabel (cioè, il dottor Becco), medico della peste nella Roma del diciassettesimo secolo, 1656 circa. Medico della peste – Wikipedia

Nel periodo attuale queste metafore sono particolarmente rischiose a mio avviso poiche’ sembra si vada verso un corpo collettivo asociale, in cui c’e’ un sistematico e non sostanzialmente reversibile – cosi’ viene implicitamente presentato sui media di massa e digitali – “distanziamento sociale”, un ossimoro. Edgerton metteva nel suo lavoro in dubbio una visione legata al relativismo culturale per affermare, proprio attraverso la metafora medica delle societa’ malate, un principio sostanzialmente unico per valutare societa’ e culture. Questa visione, forse proprio quando estesa oltre pochi principi fondamentali, e’ una porta di accesso per visioni totalitarie che vogliano imporsi sulle diverse culture, un rischio di cui in periodo di Rivoluzione Globalista – quale quello attuale seguito alla pandemia 2020 – si avverte la concretezza.

Secondo il filosofo Anthony Kenny, si puo’ ravvisare in Platone – che per il filosofo politico e della scienza Karl Popper era da considerare “totalitario” – il progenitore del concetto di “salute mentale” in quanto per esempio chi amministrava la giustizia era da vedersi in senso stretto come un medico della societa’. Per Platone dunque, mentire a chi amministra la giustizia sarebbe sensa senso cosi’ come lo e’ mentire al medico quando si vuole essere curati. Se ne potrebbe concludere come ciascuno dovrebbe dunque confessare, aprirsi completamente, per il bene della societa’ intera, anche se a proprio personale discapito.

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Infine, nel capitolo ‘Non siamo piu’ scimmie assassine’, Arlacchi sostiene che “Si va affermando sempre di piu’ l’idea che gli uomini siano esseri la cui natura e’ molto plastica, e non siano portati in modo irrevocabile ne’ verso il male ne’ verso il bene. La concezione freudiana delle due grandi forze che muovono il profondo delle azioni umane – eros e thanatos – e’ stata completamente screditata dagli studi piu’ aggiornati“.

La fiducia negli ultimi studi – parlando in generale – a mio modo di vedere ha qualcosa sotto il profilo metodologico dell’ottimismo ottocentesco nel progresso. Spesso gli studi piu’ recenti sono anche i meno messi alla prova del tempo e quelli che piu’ si possono prestare a letture politiche, proprio perche’ prodotti nella stessa epoca storica che li interpreta e ne fa uso.

“Da essi e’ scomparsa” – continua Arlacchi – “in particolare, la convalida dell’esistenza di quell’ancestrale tendenza verso l’aggressione che e’ stata postulata per spiegare la guerra e l’omicidio. Non siamo “scimmie assassine” che provano piacere nel far soffrire, umiliare e torturare gli altri. Gli esseri umani non amano il rischio ne’ le situazioni di pericolosa incertezza. […] Le violenze di massa sono quasi sempre opera di un cocktail venefico, composto da manipolatori che agiscono per sete di potere o di denaro e da delinquenti e psicopatici sotto l’influenza di alcol e droghe mescolati a gente normale, che si accoda per gregarieta’ e per opportunismo. I genocidi non sono eruzioni vulcaniche di violenza di massa. Sono opera di piccoli gruppi. Esigue minoranze ben organizzate sono capaci, di fronte all’inerzia e all’accettazione passiva della maggioranza della gente, di pianificare e compiere immensi stermini. L’Olocausto, i massacri dei musulmani bosniaci [in cui psichiatri hanno giocato un ruolo di primo piano, ndr] e tanti altri crimini sono stati organizzati e messi in atto da gruppi relativamente piccoli, che hanno agito nella certezza dell’impunita’ e dell’assenza di reazione da parte delle vittime”.

Forse qualcosa di analogo si potrebbe anche dire in fatto di rivoluzioni politiche, quando la violenza, il terrore, talora quello che a posteriori si potrebbe definire genocidio – basti pensare alla Vandea durante la Rivoluzione Francese – sono anch’essi il risultato non di sommovimenti popolari ampiamente spontanei ma di piccoli gruppi ed esigue minoranze ben organizzate. Dagli stessi gruppi e minoranze sono spesso emerse figure di medici in epoca moderna e anche nuove discipline quali la sanita’ o salute pubblica e la medicina sociale – si pensi al grande medico e rivoluzionario Rudof Virchow – o la psichiatria. Si pensi al Comitato di Salute Pubblica, in corrispondenza del Terrore, al quale fu inviato il primo memoriale letto alla Società di Storia Naturale di Parigi l’11 dicembre 1794 da Philippe Pinel, successivamente considerato il padre della psichiatria.

Arlacchi nel parlare di “manipolatori che agiscono per sete di potere o di denaro” e di “delinquenti e psicopatici sotto l’influenza di alcol e droghe” sembra psicologizzare e persino psichiatrizzare gli eventi politici, muovendo il focus del discorso dalla polis alla psiche.

Giovanni Jervis sosteneva come non fosse affatto vero che, come invece diceva R. D. Laing i generali americani guarrafondai in Vietnam fossero “più pericolosamente matti di un individuo ricoverato in un manicomio con una diagnosi di psicosi”. Jervis invitava nel suo Manuale Critico di Psichiatria del 1975, a riflettere sul fatto che “attribuire il comportamento dei generali o degli imperialisti a una sorta di mostruosa irrazionalità comunemente accettata come normale, significa non permettersi di considerare che la logica della guerra, o della bomba, o della fame, non sono il risultato di particolari processi psicologici, ma di un sistema sociale che non è né folle né irrazionale, e difende semplicemente con la massima coerenza alcuni interessi costituiti”.

Arlacchi ricorda come “Le ricerche piu’ recenti smentiscono una delle credenze piu’ radicate circa la natura umana. Quella secondo cui la violenza ha radici biologiche, dalle quali sgorga una propensione ineluttabile dell’uomo a uccidere i suoi simili. L’homo homini lupus, l’idea dell’uomo di Hobbes e Freud, alla luce della primatologia, degli studi sulle guerre, gli eserciti e i conflitti, nonche’ di numerosi esperimenti psicologici, non ha alcun fondamento. Si tratta di lavori affascinanti e purtroppo poco noti al grande pubblico. Secondo queste ricerche, se l’idea dell’uomo intrinsecamente aggressivo non ha base scientifica, anche quella del buon selvaggio, dell’altruista pronto a sacrificarsi per il bene comune, non e’ molto fondata. Le analisi piu’ accreditate dipingono un animale incerto, un po’ fifone, irresoluto sulla direzione da prendere, capace in situazioni particolari di efferate crudelta’ come di slanci altruistici, ma tendente in condizioni normali a una moderata cooperazione con gli altri, e a evitare i pericoli per se’ e per i suoi.”

Nel sottocapitolo ‘Le scimmie pacifiste’ spiega che “Le innovazioni piu’ interessanti in materia sono fornite da due tipi di studi, quelli dei primatologi e quelli degli psicologi e degli psichiatri militari.”

“Fino a qualche anno fa la primatologia era dominata dall’influenza degli studi di Jane Goodall svolti dagli anni Sessanta in poi sugli scimpanze’ della Tanzania. Lei e altri ricercatori hanno documentato il quadro di una vita associata degli scimpanze’ governata dalla violenza assassina, dal maschilismo, dalla territorialita’ e dal cannibalismo. […] con meraviglia generale si e’ riscontrato l’uso di bastoni e di pietre come strumenti di minaccia e di offesa contro avversari esterni alla propria comunita’. […] Una tipica guerra primitiva. Anche gli scimpanze’ – chimps in inglese – dividono il mondo in una zona del “noi” abitata da esseri cui si deve una considerazione speciale e cui si dedica un’aggressivita’ limitata e rituale, e una zona del “loro” cui si riservano il disprezzo e la violenza piu’ totali, negandone l’appartenenza alla specie (“deumanizzazione” diremmo riferendoci agli umani, dechimpization siamo costretti a dire in inglese, data l’impossibilita’ di declinare il termine italiano equivalente). Non c’e’ alcun dubbio che gli scimpanze’ siano xenofobi.”

“Gli aggressori [secondo Jane Goodall, ndr] avevano mostrato un grado di coordinamento e di abuso che non aveva equivalenti nelle aggressioni interne alla loro stessa comunita’. Gli scimpanze’ si erano comportati quasi come se si fossero trovati di fronte a una preda, trattando il nemico come se appartenesse a un’altra specie.”

Tutto questo finche’ non si sono studiate le scimmie bonobo che “si sono rivelate come il polo antagonista degli scimpanze’ perche’ il loro motto sembra essere “Facciamo l’amore e non la guerra”. Pacificita’, matriarcalismo, egualitarismo, moderata territorialita’, scarsa voglia di invadere e predare, tendenza alla cooperazione, condivisione di cibo, feste, divertimento e sesso. Tanto sesso. […] Gli unici primati, a parte l’uomo, nei quali il sesso e’ separato dalla procreazione, ed e’ fonte autonoma di socialita’ e di piacere. […] scimmia femminista […] sexy, hippie, gentile. […] Ci sono anche delle prove recenti su una componente genetica del fenomeno, in quanto i bonobo (ma non gli scimpanze’) possiedono una versione del gene che rende la condotta affiliativa (una condotta che promuove la coesione di gruppo) piu’ piacevole per i maschi.”

Arlacchi invita a raccogliere “l’invito di de Waal [primatologo, ndr] a immaginare di non aver mai sentito parlare di scimpanze’ e di babbuini, e di esserci imbattuti per primi nei bonobo. “Molto probabilmente saremmo oggi portati a pensare che i primi ominidi siano vissuti in societa’ centrate sulle femmine, in cui il sesso svolgeva importanti funzioni sociali e in cui la guerra era rara o assente.” Arlacchi cita anche un articolo dalla rivista Foreign Affairs di Robert M. Sapolsky ‘A Natural History of Peace’ (2006) il quale mitiga “il pessimismo delle prime ricerche sull’amigdala” dalle quali sembrava che questa parte del cervello si attivasse a seguito di “contatti con individui di razze e culture differenti.”

Su PsyPolitics de Waal fu discusso (vedi l’articolo Psichiatria, diritto costituzionale e potere politico in un dibattito televisivo anni ’60 (2020) – PsyPolitics) a proposito dello studio del comportamento altruistico nei primati, in particolare sui macachi rhesus, nel quale una scimmia che capisca ci sia un’altra scimmia dall’altra parte di uno schermo veda il proprio comportamento influenzato in modo significativo. Uno studio pionieristico relativo al comportamento empatico. Sempre più attuale oggi, in una società in cui le interazioni sono sempre più mediate dagli schermi attraverso la tecnologia digitale. Lui [Masserman, ndr] e i suoi colleghi hanno scoperto che “le scimmie rhesus soffriranno costantemente la fame piuttosto che garantirsi del cibo a discapito di un elettroshock inflitto a un conspecifico”.

De Waal ha recentemente commentato in una rassegna della letteratura scientifica sull’evoluzione dell’empatia:

“Forse la prova più convincente del contagio emotivo è venuta da Wechkin et al. (1964) e Masserman et al. (1964), che hanno scoperto che le scimmie si rifiutano di tirare una catena che fornisce loro cibo se così facendo procurano una scossa elettrica e provocano reazioni di dolore in un compagno.”

De Waal e’ anche l’autore dell’ormai classico ‘La politica degli scimpanzè. Potere e sesso tra le scimmie’ (1982).

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‘Contro la paura’ si apre con due frasi rispettivamente di John Lennon e Gengis Khan, la prima tratta dalla canzone ‘Imagine’ e la seconda un commento sul piacere di fare del male ai propri nemici. Una prima versione di questo studio fu pubblicata nel 2009 col titolo ‘L’inganno e la paura’. L’autore spiega come, rispetto a quella prima elaborazione, “Alcune formule politologiche come la cosiddetta “pace democratica” sono state abbandonate perche’ evidentemente errate, e alcune proposte politiche suggestive ma divenute obsolete come quella del governo mondiale sono state tralasciate.”

“Esiste una destra globale – etica, politica ed economica – che punta sul nostro egoismo e sul nostro bisogno di sicurezza. Agitando i fantasmi del caos internazionale, essa vuole derubarci della nostra capacita’ di progredire, di risolvere i grandi problemi del pianeta proprio nel momento in cui disponiamo delle risorse che ci consentono di affrontarli. L’umanita’ e’ oggi in grado di metter in campo sfide che in passato appartenevano al regno dell’utopia politica e dei sogni umanitari.” Queste sfide includono il “superamento stesso del capitalismo”.

Sono stato al vertice delle Nazioni unite come vicesegretario generale” – ricorda Arlacchi in apertura del libro – “e se c’e’ una cosa che ho imparato nel trattare i drammi del pianeta e’ che non esistono problemi umani, creati dagli uomini, che gli uomini stessi non siano in grado di risolvere“.

Le mie idee hanno conosciuto una svolta quando ho scoperto un gran numero di studi d’avanguardia che hanno demolito il concetto di una natura umana inclinata geneticamente verso la violenza e l’aggressione. Quello umano e’ invece un hardware sui generis, ampiamente plasmabile, che mostra una certa predisposizione verso la socialita’ e una repulsione profonda verso l’attacco fisico e l’assassinio.”

Il libro si conclude con degli ‘Scenari del mondo postamericano’ e con la ‘Centralita’ delle Nazioni unite e mondo multipolare’.

Arlacchi ha sostenuto di aver lavorato per “fare politica in modo scientifico” e “scienza in modo politico”. In una societa’ in cui la politica diventa tecnocratica – tema di cui si e’ discusso sin dall’inizio su PsyPolitics nel 2020 e prima nelle formulazioni di Londra 2019e la scienza viene declinata in modo politico, la prospettiva che Arlacchi presenta in ‘Contro la Paura’ e’ certamente rilevante e da tenere nella dovuta considerazione.

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“Tutto il senso del mio lavoro e’ consistito nel tentativo di fare politica in modo scientifico e di fare scienza in modo politico. Cosa ritenuta doverosa da Carlo Marx e impossibile da Max Weber” – Pino Arlacchi

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Ringrazio il Professor Arlacchi per avermi cortesemente voluto inviare il manoscritto in forma finale prima della pubblicazione in libreria.

Cite this article as: Federico Soldani, "Società “malate”? ‘Contro la paura’ di Pino Arlacchi (2022)," in PsyPolitics, January 18, 2022, https://psypolitics.org/2022/01/18/societa-malate-contro-la-paura-di-pino-arlacchi-2022/.

Last Updated on February 4, 2022 by Federico Soldani

2 thoughts on “Società “malate”? ‘Contro la paura’ di Pino Arlacchi (2022)

  1. “Nel 2019 in particolare ebbi modo di notare come ci siano gruppi, vicini all’Open Democracy Network e oggi sponsorizzati da organizzazioni quali il Wellcome Trust, ovvero il Progetto di Psicologia Collettiva basato a Londra, i quali stanno cercando di inquadrare, in documenti quali “Un piu’ grande noi” ad esempio, i problemi politici come problemi di psicologia collettiva, in effetti facendo slittare il significato di affermazioni quali “la societa’ e’ malata” in una direzione sempre meno metaforica – un modo di dire, un paragone – e piu’ letterale, patologizzando i fenomeni politici.”

    Si veda a questo proposito: Gli inevitabili profili di ‘psicologia fiscale'” (2021) – PsyPolitics https://psypolitics.org/2021/04/16/gli-inevitabili-profili-di-psicologia-fiscale-2021/

  2. Nella stessa intervista – Federico Soldani: intervista TV su politica, linguaggio medico-psicologico e tecnocrazia [trascrizione] (2020) – PsyPolitics https://psypolitics.org/2021/05/05/federico-soldani-intervista-tv-su-politica-linguaggio-medico-psicologico-e-tecnocrazia-trascrizione-2020/ – del 2 ottobre 2020 citata all’inizio dell’articolo sostenevo:

    “Adesso noi secondo me stiamo assistendo al linguaggio che in modo assolutamente, ecco come dire, evidente sta diventando un linguaggio tecnico, medico, psicologico, epidemiologico. E allora prima cambia il linguaggio – se seguiamo il ragionamento di Hobsbawm – e questo ci indica in che direzione cambieranno le istituzioni”.

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    Un articolo d’opinione è stato pubblicato dall’epidemiologo Jay S. Kaufman – professore di epidemiologia alla McGill University e recentemente presidente della Society for Epidemiological Research (SER) – sul New York Times a settembre 2021: “La scienza da sola non può guarire una società malata”.

    L’articolo concludeva: “Il vero problema è semplicemente che le società malate hanno istituzioni malate”.

    Si veda su questo, in inglese: Se la psicologia politica diventa epidemiologia (2020) – PsyPolitics

    https://psypolitics.org/2022/01/15/if-political-psychology-becomes-epidemiology-2020/

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