Immanuel Kant, 1764: ‘Saggio sulle malattie della testa’ (2022)

Qui di seguito il testo – con enfasi in neretto aggiunta – di Immanuel Kant sulle “malattie della testa” nella traduzione di Alfredo Marini, pubblicato originariamente in quattro puntate nel 1764 su ‘Königsbergische Gelehrte und Politische Zeitungen’ (‘Studiosi di Königsberg e giornali politici’) il cui direttore fu Johann Georg Hamann. Si veda Saggio sulle malattie della mente / Versuch über die Krankheiten des Kopfes (Testo a fronte tedesco) | Ibis Edizioni.

Su PsyPolitics sono stati affrontati in precedenza scritti filosofici settecenteschi che affrontano temi inerenti la politica assieme ad altri quali la psicologia, si veda ‘Psychologie’, ‘politique’. Encyclopédie, 1751-1765 (2021) – PsyPolitics, o il linguaggio della malattia e della follia Il ‘Codice della Natura’, 1755: sentimenti collettivi vs. ragione individuale (2020) – PsyPolitics (entrambi in inglese).

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La semplice e frugale modestia della natura esige e forma nell’uomo soltanto concetti elementari e una rozza onestà: l’artificiosa costrizione e la raffinatezza opulenta della società civile producono invece gli spiritosi e i pedanti, talvolta però anche i pazzi [Narren] e i furfanti [Betrüger] e generano una savia e costumata apparenza che può dispensare sia dall’intelligenza che dall’onestà, purché il bel velo che la rispettabilità stende sui segreti disturbi [Gebrechen] della mente o del cuore, sia abbastanza fitto. Via via che l’artificio aumenta, la ragione e la virtù finiscono col diventare la parola d’ordine di tutti, ma in modo tale che il grande zelo posto nel parlare dell’una e dell’altra può sollevare persone istruite e bennate dalla pena di possederle. La generale stima di cui ambedue le lodate proprietà godono comporta, tuttavia, questa notevole differenza: che tutti siano molto più gelosi delle proprietà positive dell’intelletto che non delle buone qualità del volere e che, nel confronto tra stupidità [Dummheit] e disonestà [Schelmerel] nessuno esiti a dichiararsi a favore di quest’ultima. Il che ha certamente la sua ragione di essere perché, se tutto dipende in generale dall’artificio, non si potrà fare a meno della sua fine astuzia, sì invece dell’onestà che, in tali circostanze, è solo di ostacolo. Io vivo tra cittadini saggi e ben costumati, e cioè tra persone che tali sanno apparire, e mi lusingo che si sarà tanto benevoli da concedere anche a me abbastanza finezza che, se fossi in possesso dei più sicuri medicamenti per sradicare le malattie della mente e del cuore, esiterei tuttavia non poco a porre una tale anticaglia tra le ruote della vita pubblica, ben consapevole come la cura di moda per la mente e per il cuore sia già nel voluto progresso e come soprattutto i medici del primo (che si chiamano logici) soddisfino molto bene alla richiesta generale da quando hanno fatto l’importante scoperta che la testa della gente è in realtà un tamburo, che risuona solo perché è vuoto. Perciò non vedo di meglio, per me, che imitare il metodo dei medici che credono di essere stati molto utili al loro paziente per aver dato un nome alla sua malattia e propongo quindi una piccola nomenclatura delle storture della mente: della sua paralisi nell’imbecillità [Blödsinnigkeit] su su fino ai suoi eccessi nella follia [Tollheit]; ma, per conoscere queste disgustose malattie nel loro insorgere graduale, trovo necessario innanzitutto chiarirne i gradi più tenui della stupidità fino al limite della pazzia, giacché queste proprietà, più comuni nella vita sociale, conducono tuttavia a quelle malattie.

La mente ottusa manca di spirito [Witz], la stupida di intelligenza [Verstand]. La versatilità nel comprendere e nel ricordarsi qualcosa e insieme la facoltà di esprimerlo in modo aggraziato, dipendono moltissimo dallo spirito; perciò una persona non stupida può essere benissimo ottusa [stumpf], in quanto qualcosa può entrarle a fatica nella testa benché subito dopo, in un giudizio più maturo, possa anche capirla, e la difficoltà di sapersi esprimere non dimostra nulla circa la sua capacità intellettuale, ma soltanto che non ha abbastanza spirito per vestire i suoi pensieri di certi contrassegni di cui alcuni convengono loro nel modo migliore. Il famoso gesuita Clavius fu cacciato dalle scuole per inettitudine perché, in base all’esame di intelligenza dell'”orbilio” [Nel testo: Orbile (da Orbilius Pupillus, grammatico, maestro di Orazio). Vuol dire, in generale, insegnante autoritario (sulla storia del termine cfr. Ak. Ausg., vol. II, p. 490)], un fanciullo è buono a nulla se non sa fare né versi né composizioni retoriche; capitato poi per caso sulle matematiche, il gioco cambiò e, rispetto a lui, i suoi maestri d’un tempo fecero la figura degli stupidi. Il giudizio pratico su cose, di cui si serve il contadino, l’artigiano, o il marinaio ecc., è molto differente da quello che si dà sulle maniere con cui gli uomini trattano tra loro. Quest’ultimo non è tanto intelligente quanto scaltro [Verschmitztheit], mentre la grata mancanza di questa capacità tanto lodata si chiama semplicità [Einfalt]. Se la causa di tale semplicità va cercata nella debole capacità di giudizio in generale, un uomo di questa sorta viene considerato un babbeo [Tropf], un sempliciotto [Einfaltspinsel] ecc. Poiché gli intrighi e le arti ingannevoli in uso nella società civile diventano lentamente massime comuni e complicano notevolmente il gioco delle azioni umane, non c’è da meravigliarsi se un uomo altrimenti intelligente e onesto per il quale tutta questa furberia è troppo spregevole perché egli debba occuparsene, o che non sappia indurre il suo cuore retto e ben intenzionato a farsi un concetto tanto odioso della natura umana, possa finire da tutte le parti tra le spire di ingannatori e debba offrir loro occasione di riso. Cosicché, alla fine, l’espressione ‘buon uomo’ finisce col significare, non più in modo metaforico, proprio un babbeo e, se capita, anche un c…; poiché, nel linguaggio dei furfanti, nessuno è un uomo intelligente se non considera gli altri niente di meglio di quanto egli stesso sia, e cioè degli imbroglioni.

Incisione su legno colorata, dal dipinto ‘Kant e i suoi commensali’ (1892). Il banchiere Johann Conrad Jacobi alla sinistra estrema della tavola; Immanuel Kant alla sua destra, legge da una lettera. Altri amici includono Christian Jakob KrausJohann Georg HamannTheodor Gottlieb von Hippel and Karl Gottfried Hagen. Immanuel Kant – Wikipedia

Gli istinti della natura umana, che se sono molto graduati si chiamano passioni, sono le forze motrici del volere; l’intelletto vi si aggiunge solo per valutare sia la piena importanza delle soddisfazioni e di tutte le inclinazioni in vista di uno scopo, sia per trovare i mezzi adatti a raggiungerlo. Se per esempio una passione è particolarmente potente, la capacità intellettuale può farci ben poco perché l’uomo, così affascinato, vede bensì le ragioni contrarie alla sua particolare inclinazione con notevole chiarezza, solo che si sente impotente a dar loro una qualche efficacia. Se questa inclinazione è in sé buona, e per il resto la persona è ragionevole, e avviene che solo lo strapotere dell’inclinazione le preclude la visione delle cattive conseguenze, questo stato della ragione incatenata è la stoltezza [Thorheit]. Uno stolto può avere molta intelligenza anche proprio nel giudicare quelle azioni nelle quali è stolto, anzi, bisogna addirittura che possieda una certa intelligenza e un cuore buono per potersi permettere di usare questo eufemismo nei riguardi delle proprie licenze. Lo stolto può in ogni caso rivelarsi un ottimo consigliere per altri, benché il suo consiglio resti per lui senza effetto. Egli si corregge solo attraverso il danno e l’età, i quali però spesso rimuovono una stoltezza solo per far posto a un’altra. La passione dominante o un altro grado di ambizione hanno fatto, da che mondo è mondo, di gente ragionevole degli stolti. Una fanciulla costringe il terribile Alcide alla conocchia e gli oziosi cittadini di Atene spediscono con la loro sciocca lode Alessandro fino ai limiti del mondo. Ci sono anche inclinazioni di minore forza e generalità, che tuttavia non mancano di produrre anch’esse la loro parte di stoltezza: la passione per le costruzioni, l’inclinazione a collezionare quadri, o la bibliofilia. L’uomo degenerato è distolto dalla sua posizione generale, e quindi è attratto da ogni cosa e occupato da ogni cosa. Allo stolto si contrappone il giudizioso; chi però è senza stoltezza è il saggio. Questo saggio si potrebbe cercarlo nella luna, forse proprio lì egli sarebbe senza passione e infinitamente ragionevole. L’insensibile è protetto contro la stoltezza della sua stessa stupidità; agli occhi della gente comune egli ha però l’aria del saggio. Su una nave in tempesta, mentre tutti si davano da fare preoccupati. Pirro vide un porco mangiare tranquillo al suo trogolo e lo indico’ dicendo: “Così dev’essere la calma di un saggio.” L’insensibile è una saggio nel senso di Pirro.

Se la passione dominante è diventata in sé stessa odiosa e contemporaneamente si è estenuata al punto da scambiare per soddisfazione proprio ciò che è l’opposto della sua stessa finalità naturale, questo stato della ragione distorta è la pazzia. Lo stolto comprende molto bene la vera intenzione della sua passione se contemporaneamente le riconosce una forza capace di incatenare la ragione. Il pazzo invece ne diventa contemporaneamente così stupido da credere senz’altro di essere in possesso di ciò che brama proprio mentre se ne defrauda. Pirro sapeva benissimo che il valore e la potenza ottengono l’ammirazione generale; egli seguiva coerentemente l’istinto della sua ambizione e non era altro che uno stolto, come appunto lo giudicava Cinea. Quando invece un Nerone si espone alla pubblica derisione leggendo da un palcoscenico miserabili versi per conquistarsi il premio di poesia, e ancora alla fine della sua vita esclama: “Quantus artifex morior!” in questo temuto e deriso dominatore di Roma io non vedo niente di più che un pazzo. Io sono del parere che ogni pazzia si sostenga propriamente su due passioni: l’orgoglio e l’avarizia [Hochmuth e Geiz]. Ambedue queste inclinazioni sono ingiuste e perciò sono odiate, ambedue sono per loro natura estenuate e il loro scopo distrugge sé stesso. L’orgoglioso sostiene con scoperta arroganza la propria superiorità davanti agli altri, attraverso un evidente disprezzo di essi. Crede di farsi onore e invece viene fischiato perché nulla è più chiaro del fatto che il disprezzo degli altri stimola la loro vanità contro l’arrogante. L’avaro ha, a suo giudizio, bisogno di molte cose, e gli è impossibile rinunciare al più piccolo dei suoi beni; intanto però egli fa effettivamente a meno di tutti quei beni in quanto, con la sua spilorceria, li tiene sotto sequestro. L’accecamento dell’orgoglio produce ora sciocchi [Alberne] ora pazzi pieni di sé [aufgeblasene Narren], a seconda che in quelle teste vuote abbia preso dimora una scimunita volubilità o una rigida stupidità. La sordida avarizia ha dato occasione da sempre a storie tanto ridicole che sarebbe difficile inventarne più mirabili di come realmente accadono. Lo stolto non è savio, il pazzo non è intelligente. La derisione che lo stolto attira su di sé è allegra e indulgente, il pazzo merita la satira più tagliente, solo che lui non la sente affatto. Non si può disperare del tutto che uno stolto possa ancora tornare prudente; chi però tenta di rendere intelligente un pazzo fa un buco nell’acqua. Il motivo ne è che, nel primo, domina tuttavia una vera e naturale inclinazione la quale, in ogni caso non fa che coartare la ragione, nel secondo invece domina una sciocca fantasia che ne capovolge i principi. Lascio ad altri di decidere se vi sia veramente ragione di preoccuparsi di quella sconcertante profezia di Holberg: che cioè l’incremento giornaliero dei pazzi sia tanto considerevole da lasciar temere che questi possano mettersi in testa di fondare la quinta monarchia. Posto però anche che essi covino tale proposito, non dovrebbero tuttavia affrettarsi troppo, perché ciascuno potrebbe dire all’altro con ragione in un orecchio ciò che il noto buffone di una corte vicina, mentre cavalcava vestito da par suo attraverso una città polacca, esclamò rivolto agli studenti che lo rincorrevano: “Quanto a voi, signori, siate diligenti, imparate qualcosa, perché se saremo in troppi non potremo mai avere tutti il pane!”.

E passo ora, da quei disturbi della mente che vengono disprezzati e vituperati, a quelli che comunemente si considerano con compassione, da quelli che non vanno contro la libera società civile, a quelli dei quali l’autorità costituita si prende cura e per i quali dispone provvidenze. Io distinguo queste malattie in due gruppi: quello dell’impotenza [Ohnmacht] e quello della stortura [Verkehrtheit]. Le prime vanno sotto la denominazione generale di imbecillità [Blödsinnigkeit], le seconde sotto il nome di squilibrio psichico [gestörtes Gemüth]. L’imbecille si trova in uno stato di grande impotenza per quanto riguarda la memoria, la ragione e spesso perfino la sensibilità. Questo male è in gran parte insanabile perché, se è difficile eliminare i terribili disordini di un cervello squilibrato, deve essere quasi impossibile infondere nei suoi organi avvizziti una nuova vita. Le manifestazioni di tale debolezza, che impedisce a quegli infelici di uscire mai dallo stato infantile, sono troppo note perché sia necessario soffermarsi più a lungo.

I disturbi di un cervello squilibrato si possono distribuire in tanti generi principali, differenti tra loro, quante sono le facoltà dell’animo che essere colpiscono. Ritengo complessivamente di poterle ordinare sotto i tre gruppi seguenti: in primo luogo la distorsione dei concetti dell’esperienza nell’allucinazione [Verrückung], in secondo luogo il disordine prodotto nella capacità di giudizio, innanzitutto da questa esperienza stessa, nel vaneggiamento [Wahnsinn], in terzo luogo, lo stato ormai distorto della ragione rispetto a giudizi più generali, nello spirito demente [Wahnwitz]. Tutte le altre manifestazioni del cervello malato mi sembra possano essere comprese e sussunte sotto le classi menzionate o come diversi gradi dei casi già citati, o come una infelice coesistenza di questi mali tra loro, o infine, come impianto degli stessi su potenti passioni.

Immanuel Kant ritratto dipinto da autore sconosciuto, circa 1790

Per quanto riguarda il primo male, e cioè lo sconcerto mentale [Verrückung], io spiego le sue manifestazioni come segue. L’anima di ciascun uomo, anche nella condizione più sana, è sempre occupata a dipingere ogni sorta di immagini di cose che non sono presenti, o anche a perfezionare qualche somiglianza imperfetta, nella rappresentazione di cose presenti, attraverso questo o quel tratto chimerico che la sua capacità creatrice associa intimamente alla sensazione. Non c’e’ nessuna ragione di credere che nello stato di attività il nostro spirito segua leggi diverse che nel sonno, è piuttosto da supporre che solo le impressioni sensibili più vivaci oscurino, nel primo caso, e rendano irriconoscibili le più tenere immagini delle chimere, anziché che queste abbiano tutta la loro forza soltanto nel sonno, quando l’accesso all’anima è chiuso a tutte le impressioni esterne. Non c’è quindi da meravigliarsi che i sogni, per tutta la loro durata, vengano presi per esperienze veraci di cose reali. Infatti, essi sono allora nell’anima le rappresentazioni più forti e sono quindi, nel sonno, proprio ciò che, nella veglia, sono le sensazioni. Supponiamo ora che certe chimere, quale che ne sia la causa, abbiano ferito per così dire questo o quell’organo del cervello, in modo tale che l’impressione su questi organi sia diventata tanto profonda e, insieme, altrettanto precisa, quanto quella che solo una sensazione sensibile può dare: allora questo fantasma dovrà per forza, anche nella veglia e in condizioni di sana razionalità, esser preso per un’esperienza reale. Perche’ sarebbe inutile opporre a una sensazione, o ad una rappresentazione che fosse pari ad essa per forza, argomenti razionali, dato che, su cose reali, i sensi sono molto più convincenti di qualunque ragionamento. Per lo meno, chi è incantato da questa chimera non può mai essere indotto col raziocinio a dubitare della realtà della sua presunta sensazione. Si constata altresì che persone le quali mostrano altrimenti sufficiente maturità razionale, persistono tuttavia nel sostenere di aver visto benissimo chi sa quali figure spettrali e volti deformi, e che sono inoltre abbastanza intelligenti da connettere la loro esperienza immaginaria con qualche sottile giudizio di ragione. Questa proprietà di chi e’ squilibrato, per cui egli, senza mostrare in misura particolarmente notevole una malattia acuta, è solito in istato di veglia rappresentarsi certe cose come chiaramente sentite, benché di esse non sia presente nulla, si chiama allucinazione. Questo pazzo è dunque uno che sogna durante la veglia. Se l’abituale illusione [Blendwerk] dei suoi sensi è solo in parte una chimera, mentre in massima parte è una sensazione reale, allora colui che in maggior grado è soggetto a tale stortura, è un fantasta [Phantast]. Se noi, dopo esserci svegliati, continuiamo a giacere in una molle e dolce distrazione, allora la nostra immaginazione ridisegna le figure irregolari, per es., delle tende del letto o di certe macchie su una vicina parete, quasi fossero figure umane, con una apparente precisione che ci intrattiene in modo non spiacevole, della quale però, volendo, possiamo di colpo disperdere l’incanto. In tal caso noi sogniamo solo in parte e teniamo in nostro potere la chimera. Se ad uno accade qualcosa di simile in un grado ancora maggiore di intensità, senza che l’attenzione della veglia riesca a separare nell’immaginazione ingannevole l’illusione allora questa stortura lascia supporre in lui un fantasta. Tale autoinganno [Selbstbetrug] nelle sensazioni è del resto molto comune, e fin che rimane soltanto moderato non merita quella denominazione, per quanto, se vi si aggiunga una passione, questa stessa debolezza dell’animo possa degenerare in vera fantasticheria. Del resto gli uomini, nell’accecamento abituale non vedono quello che c’è, ma ciò che la loro inclinazione dipinge loro davanti: il naturalista vede città nella pietra di Firenze, il devoto vede nel marmo macchiettato la storia della Passione; quella dama col cannocchiale vede nella luna due ombre di innamorati, il suo parroco invece due campanili. Lo spavento trasforma i raggi dell’aurora boreale in lance e spade, e nel crepuscolo fa di un indicatore stradale uno spettro gigante.

La costituzione fantastica dell’animo non è mai tanto volgare come nell’ipocondria. Le chimere che questa malattia genera non ingannano propriamente i sensi esterni, ma provocano soltanto nell’ipocondriaco l’illusione di una sensazione circa il suo proprio stato, del corpo o dell’anima, che per lo più è un puro capriccio [Grille]. L’ipocondriaco ha una male che, quale che ne sia la sede principale, tuttavia verosimilmente vaga instabile per tutto il tessuto nervoso e in qualsivoglia parte del corpo. Soprattutto però avvolge di un’esalazione di malinconia la sede dell’anima, di modo che il malato sente su di sé l’illusione di quasi tutte le malattie di cui appena abbia sentito parlare. Perciò egli di nulla parla con più piacere che della propria indisposizione, ama leggere libri di medicina, vi trova continuamente i propri casi; quando è in società il buon umore gli sopravvive inavvertitamente, e allora ride molto, mangia di gusto ed ha di solito l’aspetto di una persona sana. Per quanto riguarda la sua segreta fantasticheria, le immagini assumono spesso nel suo cervello una forza e una durata per lui dolorosa. Quando ha in mente un’immagine buffa (per quanto egli stesso la riconosca subito per una semplice immagine di fantasia) e questo grillo gli strappa in presenza d’altri un riso sconveniente, senza che egli si curi di renderne nota la causa, o quando ogni sorta di nere rappresentazioni suscitano in lui un violento istinto di perpetrare qualcosa di maligno, della qual cosa egli stesso penosamente si preoccupa (benché all’azione non giunga mai): allora il suo stato è molto simile a quello di un pazzo, solo che è privo di necessitazione. Il malessere non ha radici profonde e si elimina di solito, per quanto riguarda lo stato d’animo, o da se stesso o tramite qualche medicina. Una stessa rappresentazione agisce sulla sensazione in grado ben diverso, secondo il diverso stato d’animo del soggetto. C’e’ quindi una specie di fantasticheria che viene attribuita a qualcuno, solo perché il grado dell’emozione che suscitano in lui certi oggetti viene giudicata eccessiva per l’equilibrio di una mente sana. Su questa base, il malinconico [Melancholicus] è un fantasta relativamente ai mali della vita. L’amore offre una grande quantità di piaceri fantastici e l’abile capolavoro degli antichi stati consistette nel fare dei cittadini dei fantasticatori relativamente al sentimento del bene pubblico. Chi è sollecitato da un sentimento morale più che da un principio, e ciò in misura maggiore di quanto altri in base a un loro gretto e spesso ignobile modo di sentire possano rappresentarsi, è nella loro rappresentazione un fantasta. Io pongo Aristide tra gli usurai, Epitteto tra i cortigiani e Gian Giacomo Rousseau tra i dottori della Sorbona. E già mi pare di sentire alte risa di scherno e cento voci gridare: “Che fantasticherie!”. Questo ambiguo sentore di fantasticheria in sentimenti morali in sé buoni è l’entusiasmo, e al mondo non e’ mai stato fatto nulla di grande senza di esso. Tutt’altro discorso merita il fanatico (visionario, esaltato) [Fanatiker, Visionär, Schwärmer]. Costui è propriamente un allucinato [Verrückter] con una presunta ispirazione immediata e una grande confidenza con le potenze celesti. La natura umana non conosce nessuna illusione che sia più pericolosa di questa. Quando la sua apparizione è nuova, quando l’uomo che così si inganna ha del talento e la gran massa è preparata ad accogliere nell’intimo questo lievito, allora perfino lo stato ne tollera talvolta gli eccessi. L’esaltazione conduce l’entusiasta agli estremi, Maometto sul trono principesco e Giovanni da Leyda sul patibolo. Tra le storture della mente, nella misura in cui esse riguardano i concetti dell’esperienza, potrei includere in un certo senso i perturbamenti della capacità memorativa. Giacché questi ingannano il meschino che ne è colpito con una rappresentazione chimerica di chissà quale condizione passata che in realtà non ci fu mai. Chi racconta dei beni che un tempo avrebbe posseduto o del reame che sarebbe stato suo, mentre per quanto riguarda il suo stato attuale non s’inganna più di tanto, è un pazzo squilibrato riguardo alla memoria. Il vecchio brontolone convinto che durante la sua giovinezza il mondo sia stato più ordinato e gli uomini migliori, è invece un fantasta riguardo alla memoria.

Fino a questo punto, nella allucinazione, non è propriamente colpita la capacità intellettiva, quanto meno non è necessario che lo sia; infatti l’errore si annida propriamente soltanto nei concetti, mentre i giudizi, una volta che si sia voluta accettare come vera la sensazione sbagliata, possono essere, di per sé, giustissimi e perfino insolitamente ragionevoli. Uno squilibrio dell’intelletto per contro, consiste in questo: che da esperienze in tutto e per tutto esatte si giudica in un modo del tutto sbagliato. Il vaneggiamento è il primo grado di questa malattia, che nei successivi giudizi d’esperienza opera in senso contrario alla comune regola dell’intelletto. Il vaneggiante vede o si ricorda di oggetti con la stessa esattezza di qualunque sano, solo che spiega di solito il comportamento di altri uomini in base ad una vana presunzione di sé, e crede di potervi leggere chi sa quali preoccupanti intenzioni che a quelli non sono mai venute in mente. Quando lo si ascolta si dovrebbe credere che l’intera città si occupi di lui. Le persone che al mercato trattano tra loro e per caso lo guardano, stanno parlando di lui, il guardiano notturno vuol giocargli un brutto tiro e, in breve, egli non vede che una generale congiura contro di sé. Il malinconico, il quale vaneggia nelle proprie tristi e demoralizzanti supposizioni, è un depresso [Trübsinniger]. C’è però anche ogni sorta di dilettevole vaneggiamento, e la passione innamorata si lusinga o si tormenta con certe spiegazioni stravaganti che sono simili al vaneggiamento. Un altezzoso [Hochmutiger] è in certa misura un vaneggiante il quale, dal comportamento di altri, che per gioco lo guardano a bocca aperta, conclude che essi lo ammirano. Il secondo grado di una mente squilibrata nella superiore capacità conoscitiva è propriamente quello della ragione che è andata in confusione perché si è impegnata in immaginare raffinatezze di giudizio su concetti generali, e questo può essere chiamato lo spirito demente. Nel grado più alto di questo squilibrio attraverso un cervello sconclusionato [verbrannt] si hanno ogni genere di intuizioni tracotanti e ultraraffinate: la scoperta della lunghezza del mare, la soluzione di profezie o chissà che pasticcio di sciocchi rompicapo. Se un infelice di questa sorta ignora altresì i giudizi di esperienza, il suo stato va sotto il nome di spirito aberrante [Aberwitz]. Nel caso egli si basi su molti corretti giudizi di esperienza, solo che la sua sensibilità resti talmente rapita dalla novità e dalla massa delle conseguenze che si presentano al suo spirito, da fargli dimenticare la correttezza dei nessi, allora ne risulta spesso un’abbagliante apparenza di vaneggiamento; il che può anche essere compatibile con la grandezza del genio, in quanto la lenta ragione non è più in grado di accompagnare lo spirito in estasi. Quello stato della mente squilibrata che la rende insensibile alle sensazioni esterne, è la insensatezza [Unsinnigkeit]; la stessa, in quanto vi prevale la collera, si chiama frenesia [Raserei]. La disperazione e’ un’insensatezza passeggera di un disperato. La spumeggiante animosità di uno squilibrato si chiama, in generale, furia [Tobsucht]. Il furioso, in quanto e’ insensato, è folle [toll].

L’uomo, nello stato di natura, può andar soggetto soltanto a poche stoltezze e difficilmente a qualche pazzia. I suoi bisogni lo tengono sempre vicino all’esperienza e impegnano tanto poco il suo buon senso, che egli si rende appena conto di aver bisogno dell’intelletto per agire. L’inerzia conferisce ai suoi desideri elementari e comuni una moderazione, che lascia alla poca capacità di giudizio di cui abbisogna forza bastante per dominarli traendone il massimo vantaggio. Da dove dovrebbe egli prendere materia alla pazzia, dal momento che, incurante del giudizio altrui, non può essere né vanitoso borioso? In quanto non si fa alcuna idea di beni non goduti, è assicurato contro l’immoderata e sordida avarizia. E poiché nessuna leziosità trova adito alla sua mente, così egli è altrettanto ben garantito contro ogni aberrazione dello spirito. A questo livello di semplicità, un simile squilibrio psichico può darsi solo di rado. Salvo che il cervello del selvaggio avesse subito qualche trauma, non so da dove dovrebbe provenirgli una fantasticheria capace di reprimere [verdrängen] le sensazioni abituali, le uniche che lo tengano senza sosta occupato. Quale vaneggiamento può sopravvenirgli, dato che egli non ha motivo di salire troppo in alto [sich zu versteigen] con i suoi giudizi? La demenza spirituale è quindi certamente del tutto al di là delle sua capacità. Se malato di mente, egli sara o imbecille o folle. E anche questo deve avvenire molto di rado, perché egli, essendo libero e in movimento, è per lo più sano. È nella società civile che si trovano le condizioni favorevoli a tutta questa corruzione, e se non sono proprio esse a produrla, sono certamente esse a mantenerla e a incrementarla. L’intelletto, in quanto è sufficiente alle necessità e ai semplici piaceri della vita, è il sano intelletto [gesunder Verstand]. In quanto invece viene stimolato ad un’artificiosa ricchezza, sia nel godimento sia nelle scienze, è il fine intelletto [feiner Verstand]. Dunque, il sano intelletto del cittadino sarebbe già, per l’uomo naturale, un intelletto molto fine e i concetti che in certi ceti presuppongono un fine intelletto non si convengono più a coloro che, almeno nei loro pensieri, sono più vicini alla semplicità della natura e che, se li fanno propri, finiscono solitamente coll’uscir matti. L’abate Terrasson, in qualche suo scritto, distingue gli squilibri psichici in quelli che da rappresentazioni errate concludono in modo corretto, e quelli che da rappresentazioni corrette concludono in modo errato. Questa partizione concorda certamente con la nostra precedente esposizione. In quelli del primo tipo, fantasti o sofferenti di allucinazione, non è propriamente l’intelletto a soffrire, ma solo quella facoltà che suscita nell’animo i concetti dei quali, poi, la capacità di giudizio si serve per confrontarli tra loro. A questi malati si possono benissimo opporre giudizi di ragione, se non per ovviare al loro male, almeno per attenuarlo. Ma poiché in quelli del secondo tipo, i vaneggianti e gli spiriti dementi, è l’intelletto stesso ad essere colpito, non soltanto è stolto ragionare con loro (perché non sarebbero vaneggianti se fossero in grado di capire questi ragionamenti razionali), ma è anche estremamente dannoso. Infatti, in tal modo, non si fa che offrire alle loro menti distorte nuova materia per eccitarli a sconsideratezze; la contraddizione non li guarisce ma li accende ancor più ed è assolutamente necessario, nel trattare con loro, assumere un atteggiamento freddo e benevolo, proprio come se non si notasse affatto il difetto della loro intelligenza.

Ho chiamato i disturbi della capacità di conoscenza malattie, così come si chiama la corruzione della volontà una malattia del cuore. Io ho inoltre prestato attenzione solo ai fenomeni di tali malattie, nell’animo, senza volerne indagare la radice, che certo risiede propriamente nel corpo e, molto probabilmente ha la sua sede principale più nell’apparato digerente che nel cervello, come un settimanale di successo, universalmente noto sotto il nome di “Il Medico” riferisce nei suoi numeri 150, 151, 152. Non posso anzi, in nessun modo persuadermi che il perturbamento dell’animo debba nascere, come comunemente si crede, da orgoglio, da amore, da troppo forte meditazione o da chissà quale abuso delle forze dell’anima. Questo giudizio, che fa della sventura del malato una ragione per rimproveri derisori, è molto impietoso ed è prodotto da un comune errore, che consiste nell’abitudine di scambiare la causa con l’effetto. Se si presta soltanto un po’ d’attenzione agli esempi ci si accorge: che dapprima è il corpo a soffrire e, sviluppandosi il germe della malattia inavvertito, ciò che si avverte è solo un’ambigua disfunzionalità [Verkehrtheit] che non permette ancora di supporre uno squilibrio dell’animo, il quale intanto si manifesta in strani grilli amorosi o in un carattere tronfio o in arzigogoli inutilmente profondi. Solo col tempo la malattia esplode e induce a vederne la ragione in quello che era lo stato immediatamente precedente dell’anima. Ma si dovrebbe dire, che il soggetto è divenuto altezzoso perché in qualche misura, già malato, e non già che si sia ammalato per essere stato tanto altezzoso. Queste tristi malattie, a meno che non siano ereditarie, lasciano ancora sperare in una felice guarigione e quello di cui si deve soprattutto cercare l’assistenza è il medico. Tuttavia io, honoris causa, non vorrei escludere nemmeno il filosofo, il quale potrebbe prescrivere una corretta dieta dell’animo purché non chieda, per questo, come per la maggior parte delle altre sue occupazioni, di essere pagato. Per riconoscenza, nemmeno il medico rifiuterebbe la sua assistenza al filosofo, se questi talvolta tentasse la grande ma sempre vana cura della pazzia. Egli ad esempio, a proposito della furia di un dotto urlatore, prenderebbe in considerazione se certi purganti, presi in forte dose, non debbano riuscirgli di giovamento. Dato che, secondo le osservazioni di Swift, una cattiva poesia è soltanto una purga del cervello, per mezzo della quale vengono eliminati umori molto dannosi, a sollievo del poeta malato, perché una miserabile arzigogolata scrittura non dovrebbe essere qualcosa di analogo? In tal caso però sarebbe saggio indicare alla natura un’altra via di purificazione, in modo che il male venga tolto alla radice e in gran silenzio, senza disturbare per questo la società.

Il ministro degli Esteri norvegese Jonas Gahr Støre (qui un suo discorso) e il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov davanti alla tomba del filosofo Immanuel Kant. Kaliningrad, Russia. 7 marzo 2011, foto da Utenriksdepartementet UD, CC BY-SA 2.0

“La tomba di Kant a Kaliningrad in Russia. Immanuel Kant era un filosofo tedesco e uno dei pensatori centrali dell’Illuminismo.” Immanuel Kant: Stock Photos, Pictures & Royalty-Free Images – iStock (istockphoto.com)

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[Nell’immagine all’inizio dell’articolo, ritratto di Immanuel Kant opera di Johann Gottlieb Becker, 1768 – Wikipedia]

Cite this article as: Federico Soldani, "Immanuel Kant, 1764: ‘Saggio sulle malattie della testa’ (2022)," in PsyPolitics, October 8, 2022, https://psypolitics.org/2022/10/08/immanuel-kant-1764-saggio-sulle-malattie-della-testa-2022/.

Last Updated on October 8, 2022 by Federico Soldani

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